Gianluca De Col Scrittura | Teatro | Formazione

Imparare, fare, camminare – Intervista a Renata M. Molinari

Renata M. Molinari, autrice teatrale e dramaturg, affianca al lavoro per la scena una intensa attività di formazione al teatro. La pratica del laboratorio e la drammaturgia come pedagogia sono i perni della sua attività e riflessione teorica. Ha fondato a Bagnacavallo La Bottega dello Sguardo, che custodisce la Biblioteca Teatrale Molinari. La Bottega lavora in stretta relazione con il territorio promuovendo incontri, laboratori e convegni.
G. Da chi hai imparato? Quali sono stati i tuoi maestri e le tue esperienze formative?
R. Io ho sempre imparato, per me l’imparare è una condizione di vitalità, di essere vivi, io ho voglia di imparare, finché ho voglia di imparare sento di essere viva. Sicuramente ho imparato da alcuni insegnanti del liceo, che mi hanno trasmesso la passione di sapere, di conoscere, di indagare. La passione è anche essere vivi tra le persone vive, e anche tra le cose. Una donna, di cui non ricordo il nome, mi disse: «Io conosco quest’albero, è cresciuto con me, e io quando lo rivedo, so che lui ha visto le cose che io ho visto». Questa cosa mi è sempre rimasta molto impressa.
Un sapere, quando è tale, è sempre condiviso, magari con una cosa; questo si collega immediatamente al tema della memoria. Il sapere passa sempre attraverso una relazione e l’imparare è la base di questa relazione.
Ho imparato sempre molto lavorando. Quando lavoravo con Carla Pollastrelli e lei traduceva Grotowski, per me il suo modo di lavorare era un insegnamento. Io imparavo da lei, anche se io non so fare le cose che sa fare lei e non è neanche detto che voglia fare le cose che sa fare lei, però ho imparato sicuramente da lei.
Da Franco Quadri ho imparato moltissimo, so con precisione che cosa ho imparato: la capacità di mettere insieme le immagini, le parole, imparare a vedere uno spettacolo. Era imparare dalla sua passione, dal suo perfezionismo. La perfezione non è di questo mondo, ma il perfezionismo sì. C’era questo suo volere che le cose fossero fatte bene, al limite del perfezionismo, ma era un perfezionismo nutrito da una passione. Più invecchio più mi accorgo di aver imparato da lui.
G. Mentre lavoravi con Franco Quadri ti rendevi conto che stavi imparando?
R. Me ne accorgo di più adesso. Questo vale anche per Dalla Palma, il mio Professore all’Università. Recentemente degli studenti che stanno preparando delle tesi mi hanno fatto delle domande, e ho rivisto delle cose di quel periodo e mi accorgo che ho imparato dal Professore, non un metodo, perché non era metodico, ma sicuramente ho imparato a studiare, l’importanza di studiare. Noi col Professore abbiamo cominciato a fare delle attività che non avevamo mai fatto prima, l’animazione per esempio. Gli studenti hanno detto: «allora eravate dei dilettanti». No, noi non eravamo dilettanti, perché noi studiavamo moltissimo, facevamo relazioni, lavoravamo.
G. Imparare a studiare… Imparare ad imparare?
R. Imparare ad imparare… Ho imparato moltissimo dalle persone incontrate, anche nei viaggi, imparare delle regole elementari di soluzione pratica di problemi, e anche imparare le diversità, non c’è una sola via per risolvere un problema.
Da alcuni amici ho imparato molto, penso a Gianandrea Piccioli, col suo rigore etico e anche pragmatico. Ho imparato dagli esempi di vita e di lavoro di alcune persone a me care. Normalmente quando ammiro qualcuno per quello che fa – che non necessariamente corrisponde a quello che farei io – cerco di imparare il modo di far fronte alle situazioni e di risolvere problemi.
Ho imparato molto dai libri, dagli autori che ho letto, ci sono certe narrazioni che sono una forma di conoscenza: imparare dall’evidenza della scrittura quando non risponde a un bisogno descrittivo o di commento, ma di azione poetica, di poiesis.
Ho imparato moltissimo insegnando. Insegnare ti costringe a trovare le parole per trasmettere quello che tu sai, o pensi di sapere, e capire quando devi trasformare il modo di dire quello che sai.
Imparare durante i laboratori, durante le prove, imparare che è possibile. Il teatro è l’ambito nel quale io mi sono formata, presumo di poter dire che è anche un ambito privilegiato, perché è proprio il luogo delle possibilità, dove uno impara ad essere altro da sé e impara ad essere quello che non sapeva di essere. Dagli allievi ho imparato molto.
Laura Mariani e Claudio Meldolesi mi hanno insegnato a valorizzare il mio lavoro, spingendomi a scriverne.
Poi ho imparato sicuramente molto da Thierry Salmon e dai suoi attori, dall’osservazione del suo lavoro con gli attori, lì ho imparato molto teatralmente.
Con Thierry, con cui ho lavorato con continuità, ho imparato la tenacia, l’andare fino in fondo e vedere la logica delle conseguenze, essere di fronte alla logica delle conseguenze.
É stato molto importante nella mia biografia il lavoro con Eugenio Barba, e poi gli incontri successivi, questo suo agire attraverso le parole, proprio da guida, da capo di un gruppo, di una compagnia, di un gruppo di lavoro.
Ho imparato molto anche da Federico Tiezzi – il suo teatro non sempre ha coinciso con la mia visione del teatro – però ho capito che lui riusciva a trasformare delle intenzioni in forma teatrale.
G. C’è una frase che hai detto nel recente incontro con Federico Tiezzi: «Come eravamo intelligenti da giovani»…
R. C’è un’intelligenza della giovinezza, il fare come se fosse vero.
G. Nei tuoi laboratori tornano spesso riferimenti ai Maestri: Grotowski, Eugenio Barba, Heiner Müller e torna spesso una frase: «non fare troppo».
R. È come se ci fosse una fase dell’imparare in cui non devi portarti a casa niente di formalizzato, mentre teatralmente c’è la tendenza a dare subito una forma. Non chiudere subito, ma restare attivi, attivi anche nella passività, che è una delle cose importantissime che credo di aver imparato da Grotowski. Si è attivi anche se non si sta facendo qualcosa di definito agli occhi degli altri, è una qualità di ascolto, di vigilanza: essere pronti.
C’è poi la grande difficoltà di far convivere questi insegnamenti – apprendimenti – con le richieste del mondo presente, della burocrazia e della produttività, che ti impongono di fare, di produrre in forme ben classificate, schedabili, schedate. Ti spingono a fare, sempre, senza mai concedersi quel fare particolare che è stare in ascolto, una forma di vigilanza…
G. L’attenzione vigile…
R. L’attenzione vigile ti mette nella condizione di accettare la passività, che è anche la passività dell’allievo, ma ad un certo punto reagisci, raccogli le forze e rispondi. C’è un’immagine di Peter Brook, quella del pony – era una femmina – finita nelle sabbie mobili, stava completamente immobile, con tutti gli uomini che si affannavano intorno. A un certo punto, con un solo movimento, si è salvata, ha raccolto tutte le energie per fare quell’unico movimento che l’ha fatta uscire da lì.
R. Adesso sto mettendo a posto l’archivio e prendo in mano i miei quaderni di appunti, ecco, forse questa è l’immagine più forte – per me – dell’imparare: gli appunti. É un immagine molto precisa dell’imparare. Quando apro un mio quaderno di appunti: parla Flaszen, parla Grotowski, io scrivo. Sicuramente parto da una cosa che ho sentito, ma poi su dieci righe, forse due sono parole di Flaszen e Grotowski, il resto sono la mia risposta immediata a quello che ho sentito. É come se fosse una traduzione simultanea.
Prendo appunti spessissimo, a volte anche a teatro – non perché devo fare una recensione, non ho mai fatto recensioni – prendo appunti perché c’è qualcosa che deve essere colto e che devo fissare. Quando rileggo non so se sono parole sue o parole mie, sono quello che io ho capito, sono quello che ho imparato.
G. Il fare memoria è il filo conduttore dell’attività della Bottega dello Sguardo del 2022, ed è stato il punto d’arrivo del secondo laboratorio Compiere l’azione (Quantin – BL, agosto 2021), un laboratorio partito dalla struttura compositiva dei Triangoli di Thierry Salmon.
R. Ancora una volta è la lingua, sono le parole che guidano. Gli attori usano l’espressione fare memoria, normalmente a scuola ti dicono: «impara a memoria», non ti dicono: «fai memoria». C’è un perché se l’attore dice fare memoria, può essere un perché fissato una volta per tutte in una convenzione, ma questa convenzione, all’inizio, ha avuto la sua necessità per affermarsi in un modo invece che in un altro.
Per me fare memoria – e questo è in tutto il lavoro di Thierry Salmon – è costruire memoria. Costruire, cioè creare i puntelli, creare attraverso gli esercizi e la disciplina, con metodo, ripetendo e ripetendo come se tu fossi certo che funziona – e invece non lo sei per niente – e provare, e costruire memoria.
E c’è anche sapere che questa memoria non riguarda solo te. Poi c’è fare memoria con l’intenzione di consegnare qualcosa, ma prima di tutto devi capire che cosa hai fatto e capire che cosa stai facendo, questo è fare memoria.
G. Memoria e repertorio. Ho l’impressione che a teatro la parola repertorio non sia più molto usata.
R. Non è usata in Italia, nel teatro italiano. All’inizio, quando si dibatteva della questione del dramaturg, qualcuno sosteneva che in Italia non è possibile il lavoro del dramaturg perché non c’è un repertorio. Che cos’è il repertorio? Il fatto che tu hai a disposizione – hai a memoria – dieci testi o dieci spettacoli, fra i quali puoi scegliere anche al momento, adattandoli alla situazione, adattandoti alla situazione.
Il dramaturg esiste nel teatro di derivazione tedesca o inglese, perché là c’è un repertorio e sul repertorio tu lavori intrecciando, e il repertorio è la dote che tu porti con te.
C’è un passaggio di Heiner Müller, in cui spiega che stavano preparando il Giulio Cesare, e hanno capito che per la situazione non bisognava mettere in scena il Giulio Cesare, ma andava messo in scena il Tito Andronico. Cosa significa? Intanto, l’intelligenza di capire che – per la situazione, per le circostanze – lo spettacolo da rappresentare era un altro, e che puoi fare questo solo se hai un repertorio a disposizione.
In Italia il repertorio si usava nelle famiglie d’arte e nelle compagnie, e il repertorio era anche il possesso concreto dei copioni, il copione intero era del capocomico, gli altri avevano solo la loro parte. Il repertorio era anche il patrimonio, come dire, il corredo – un’immagine a me cara che ogni tanto esce quando parlo del teatro – avevi il tuo corredo: tu avevi queste possibilità, queste frecce al tuo arco.
G. Il viaggio, le mappe, le mappe della drammaturgia, il camminare, i passi…
R. Qui c’è la centralità del laboratorio nella mia visione del teatro, ogni laboratorio è un viaggio. Ti metti in cammino con delle persone che conosci o con delle persone che non conosci, cammini assieme, con qualcuno che dà delle indicazioni e tiene la barra. Non sono seminari dove si insegna a fare qualcosa in un certo modo. Nel laboratorio si mette alla prova un testo, un tema, un sapere o un saper fare, assieme agli altri, e secondo una modalità di relazione e di visione teatrale, questo sì, ma che non significa: adesso facciamo tutti le capriole, può essere: adesso facciamo tutti silenzio. Questa è una qualità di una condivisione di uno spazio, di un tempo, di un viaggio. Il laboratorio è anche il luogo dove io imparo di più, sia sul mio modo di lavorare, sia sulle potenzialità di un altro.
Per me ogni laboratorio deve concludersi con un’apertura, che in realtà è dare forma al percorso, è il racconto del viaggio, ogni viaggio deve concludersi con il racconto di cosa abbiamo visto, cosa abbiamo incontrato, oppure può concludersi con una festa, però non deve essere un momento in attesa dello spettacolo, dal mio punto di vista non è qualcosa che deve essere fissato.
G. Avviamoci verso la conclusione: qual è il testo che avresti voluto scrivere?
R. La Germania di Tacito, forse.
G. Lo spettacolo che vorresti vedere ora?
R. Vorrei vedere il Pinocchio di Carmelo Bene. E mi piacerebbe vedere rappresentato Venezia salva di Simone Weil.