“My horror picture show”
Magdalena Barile è autrice, docente di scrittura e coordinatrice del corso di drammaturgia della Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi di Milano. Una scrittura brillante e tagliente, un look sul filo della performance, dei post sui social di rara ironia: collage fotografici che mettono a confronto un proprio ritratto con quello di un personaggio famoso (denominatore comune: un’espressione, uno sguardo, un accessorio o un taglio di capelli). Magdalena/Tilda Swinton, Magdalena/Miss Piggy, Magdalena/David Lynch. Un’indagine sull’identità e sulla mutazione che ritroviamo nei suoi testi.

(Magdalena Barile ritratta da Mario Zanaria)
Come ti definisci: autrice, drammaturga, scrittrice?
Autrice. Dopo un primo confronto con chi metterà in scena il testo preferisco scrivere prima da sola, consegnare le coordinate, creare la struttura, e in un secondo momento accogliere suggerimenti, modifiche, anche grandi mutamenti. Sono quella che dà l’impostazione, ma creo strutture il più possibile aperte, per dare la massima libertà a chi metterà in scena quel testo.
Dunque il testo può essere modificato, tradito, tagliato e manipolato nella messa in scena?
Il testo teatrale deve aprire possibilità, non chiuderle, è una guida che suggerisce modalità per la messa in scena ma non deve dettare legge. E’ solo un aspetto dello spettacolo e non necessariamente prioritario. Non penso mai a come sarà messo in scena un mio testo, anzi spero sempre di essere sorpresa da quello che vedrò e sentirò.
Un testo teatrale deve funzionare “sulla carta”?
Non è sulla carta che deve funzionare. Per me il testo teatrale è un “ibrido”, un mix di letteratura e materiale di lavoro. Non credo che un testo teatrale sia fatto per la lettura “tout court”. Il testo teatrale può essere un testo autonomo e godibile ma sulla carta non è completo. È completo solo quando si incarna e incontra una delle sue possibili messe in scena. Non scrivo per la pubblicazione, scrivo per la scena, cucio testi per chi lo interpreterà e immaginerà, per chi lo ri-scriverà “oltre le parole”.
Nella drammaturgia contemporanea esistono ancora i generi teatrali oppure esiste solo l’“ibrido”?
Io direi che oggi la contaminazione è il terreno più fertile. Difficile pensare che un giovane autore si dedichi a seguire Aristotele alla lettera. Certo, può essere un esercizio di stile…
Siamo nell’epoca del post-post-drammatico. Il ‘900 ha scardinato tutte le norme auree del racconto lineare, adesso stiamo curiosamente assistendo a un ritorno all’ordine, alla trama, complice anche questa ossessione delle serie TV, che mi sembrano essere il nuovo oppio del popolo degli schermi illuminati. Tutto questo realismo televisivo di alta qualità ha un effetto anche nella produzione di nuova drammaturgia, un ritorno alla drammaturgia classica: conflitto, personaggio, pathos, siamo nel New aristotelico.
C’è meno ricerca se escludiamo quella delle nuove tecnologie che però richiede budget più consistenti. Nel passato le avanguardie hanno cercato di andare oltre a quello che si dice e che si vede. Ora si sperimenta meno e ci si accontenta di più.
Questo ritorno alla trama avvicina il pubblico al teatro? Un teatro meno “sperimentale” attrae nuovo pubblico?
Se c’è una promessa nell’immedesimazione il pubblico è più invogliato ad andare a teatro. Funzionano il caso di cronaca, la storia vera o il personaggio famoso. Il pubblico vuole riconoscersi in quello che vede, vuole sapere già in anticipo quello che troverà, e qui siamo nel viaggio dell’eroe, matrice di tutte le storie [Chris Vogler “Il viaggio dell’eroe, la struttura del mito ad uso di scrittori di narrativa e cinema”]. Le persone vanno a teatro sapendo quello che trovano. Lo spettatore teatrale non cerca l’esperienza nuova, non crede fino in fondo che il teatro possa essere rivelazione, che possa davvero spostare lo sguardo sulla realtà, che possa addirittura, come nel rito antico, portare a un riconoscimento di sé come parte di qualcosa di più grande. Il teatro contemporaneo allontana dal “teatro che cambia la percezione”. Il teatro di prosa suscita emozioni che si esauriscono rapidamente ma che non lasciano il segno.
Qual è il contrario di “drammaturgia chiusa”?
La drammaturgia che non fonda la sua forza sulla coerenza della narrazione, ma su altri elementi. Sono “drammaturgie aperte” quelle che non mettono la logica del racconto al centro, ma il corpo, la luce, il suono. Io che arrivo dritta dal teatro di parola un po’ ci sto arrivando ora: scarnificare la verbalità, creare una scrittura scenica che non vada solo nella direzione del testo, ma che parli tutte le altre lingue, quelle più intuitive, più potenti. A teatro spesso si parla solo di quello che si dice, ma il teatro è molto altro. Nei corsi di drammaturgia alla Paolo Grassi cerco di stimolare gli allievi ad affrontate altri “dispositivi” teatrali che non siano solo impalcature di senso e parole, proponendo agli allievi di pensare a drammaturgie per corpi, azioni, colori, apparizioni, danzatori.



Esiste ancora la tragedia?
Si. Forse non è la forma drammatica più flessibile per raccontare la contemporaneità ma sono certa che ci siano grandi autori che possano ancora far risuonare grandi storie capaci di ispirare gli spettatori. Non tutti possono scriverle, non tutti hanno quella capacità di sguardo sulla realtà. Il mio sguardo ad esempio non è abbastanza radicale. Per scrivere la tragedia serve una visione chiara di quello che è empio e di quello che è sacro. Servono conflitti inconciliabili, moniti sferzanti, non mezze misure. Il nostro orizzonte politico-sociale è ancora abbastanza integro per rappresentare tragedie e sperare che queste abbiano senso per qualcuno? Non saprei. Sarah Kane le ha scritte.
Può esistere la tragedia finché c’è qualcosa di sacro. Cosa intendi per sacro?
Il mistero che circonda ogni aspetto della nostra vita e di cui spesso ci dimentichiamo. La società è retta da cose che si vedono che sono in equilibrio su cose che non si vedono. Le cose che non si vedono sono il regno dell’inviolabile. Quando si tenta di violare l’inviolabile comincia la tragedia. Se tutto è accessibile, se tutto è senza mistero, allora non c’è tragedia.
La drammaturgia ha saputo elaborare il vissuto della pandemia?
È un po’ presto per elaborare. Sono nati tanti spettacoli sul lock-down e post lock-down. La sensazione condivisa di essere vittima di “dittature” e misure “troppo rigide” , ha portato un aspetto nuovo e spiazzante in una società che credevamo, pur illudendoci, baluardo di libertà individuali. Teatralmente bisognerà lavorare per trovare la lingua per raccontare tutto questo, non si può cavarsela con l’epopea di un infermiera, con la storia di un ammalato o dell’ultimo saluto negato al cadavere di un nuovo Polinice. Forse un drammaturgo tedesco ce la racconterà in uno spettacolo di 48 ore con un palco tutto spalmato di Amuchina.
Quanto della tua vita privata entra nella tua scrittura?
Debitamente trasposto, tutto entra. Non faccio auto-fiction.
Auto-fiction?
Portare in scena la propria vita, la propria storia e la propria identità. È un po’ una moda buttare gli affari propri in scena.
È di moda l’autobiografia?
E’ uno sviluppo naturale o forse un equivoco pop della dimensione performativa in cui il perfomer porta in scena sé stesso e dunque anche la sua vita. C’è qualcosa di antico: l’offrirsi, il “sacrificarsi” sul palco, portare un’esperienza autentica, che poi è autentica fino ad un certo punto come qualsiasi dimensione scenica. L’auto-fiction è anche a rischio pettegolezzo. Adoro i pettegolezzi ma non sul palco. Tornando alla scrittura, penso che si debbano sempre trovare dei punti di contatto con la propria storia, con quello che conosci per parlare delle cose.
Qual è la cosa più difficile da insegnare ai tuoi allievi di drammaturgia?
La difficoltà che tutti drammaturghi in erba incontrano quando si avvicinano alla scrittura teatrale è quella di capire che non bisogna raccontare, ma bisogna provocare degli accadimenti, evocare piani di realtà. Trovare il modo di far vivere la scena e non raccontarla o descriverla, non starci accanto, ma starci dentro. La scrittura teatrale, come le altre scritture, ha bisogno di precisione e disciplina per “strutturare il caos”. Bisogna sapere che le parole hanno un grosso peso in un copione, soprattutto se non si dicono.
Qual è il testo che avresti voluto scrivere?
Il Rocky Horror Picture Show: vampiri, travestiti, seduttori, divi del cinema, le tematiche della mutazione, un debutto al Royal Court Theatre, un musical di successo ed un film cult.



I tuoi prossimi lavori?
Nella mia testa sto lavorando da tempo ad un testo sul celebre Circolo Bloomsbury, gruppo di artisti e intellettuali inglesi della prima parte del ‘900 di cui facevano parte fra gli altri Virginia Woolf e la sorella Vanessa Bell, Lytton Strachey, Maynard Keynes etc. Non vorrei fosse solo uno spettacolo in costume, ma di sicuro ci saranno molti travestimenti.
A febbraio 2022 verrà pubblicata una raccolta di miei testi teatrali intitolata “Gentleman Anne e altre pièce femministe”, edizione Vanda Publishing, in concomitanza con il debutto di “Gentleman Ann”, uno spettacolo di e con Elena Russo Arman e Maria Caggianelli Villani al Teatro Elfo Puccini di Milano.
Di cosa tratta la raccolta “Gentleman Anne e altre pièce femministe”? C’è un filo conduttore?
Lesbiche ottocentesche perse nella brughiera, poetesse erotiche, cantanti blues e corpi mutanti in un futuro senza maschi sono le protagoniste di questa raccolta di testi che mettono al centro il corpo mai allineato e in continua trasformazione di un femminile poco rassicurante.
Le quattro pièce scritte e cucite per le attrici e registe che le hanno portate in scena, prendono ispirazione dalle vite e dalle opere di artiste e donne visionarie realmente esistite. Anaïs Nin, Charlotte Brontë, Janis Joplin, Anne Lister e Valerie Solanas si reincarnano in un gioco di invenzioni drammaturgiche, citazioni e tradimenti che si intreccia con la contemporaneità.
Gentleman Anne evoca le prodezze di Anne Lister, nobildonna inglese dell’inizio dell’800, vicina di casa di Charlotte Brontë. Ci ha lasciato molti diari scritti in un codice segreto (poi decifrati negli anni ’70 e ora patrimonio Unesco) che raccontano le sue conquiste femminili, avventure che farebbero arrossire Don Giovanni insieme al suo ideale perfetto di libertà in abiti maschili.
Rosa Conchiglia è uno dei molti colori con cui Anaïs Nin dipinge il sesso femminile. La poetessa nota per i sui racconti erotici, scritti per pagarsi l’affitto di una soffitta parigina in una vita tutta tesa alla ricerca poetica.
Cosa Beveva Janis Joplin? è un concerto spettacolo dove due musiciste in una serata sbagliata evocano le eroine del blues, tutte maledette dal loro talento e schiacciate dalla violenza dei loro mariti padroni.
Api Regine, commedia fantascientifica ispirata al manifesto Scum di Valerie Solanas a cui il testo è dedicato, è una distopia femminista dove una società di donne con affilati pungiglioni in mezzo alle gambe fallisce come la società fallica degli uomini.
Quattro visioni femministe incarnate prima che il tempo della politica fosse maturo. Presagi inquieti di un tempo che deve ancora venire.
Donne dedite al piacere, alla conoscenza, all’arte e alla violenza, donne che più che a procreare e a conservare pensano a distruggere o a distruggersi. Una vera rivoluzione.
Scorrendo gli appunti presi durante la nostra conversazione, ti propongo una definizione: “Autrice femminista innamorata di ogni possibile identità mutante, ribelle e preferibilmente eccessiva”, ti riconosci?
Direi proprio di sì.
Ultima domanda – a proposito di mutamenti – il colore della prossima tinta?
In questo senso cambio poco, sempre platino.
